Il caso

Covid, rifiutano vaccino: 15 infermieri positivi a Genova. Ed ora è polemica

Il Direttore Generale del Policlino domanda se non sia il caso di introdurre misure più severe per responsabilizzare i professionisti del settore (la cui larghissima parte, comunque, al Policlinico genovese non si è sottratta alla campagna)

Covid, rifiutano vaccino: 15 infermieri positivi a Genova. Ed ora è polemica
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È diventato un caso di portata nazionale - e che nella stessa dimensione potrebbe finire col fare proprio da precedente - quello del Policlinico San Martino di Genova, dove 15 infermieri, che si erano rifiutati di sottoporsi alla vaccinazione contro il SARS-CoV-2, il virus all'origine del Covid-19, ora sono risultati positivi. E la loro posizione professionale diventa materia di dibattito.

Covid, rifiutano vaccino: 15 infermieri positivi a Genova

Già, perché al momento - anche a prescindere dalle questioni riguardanti il rischio a cui possono aver esposto i pazienti con cui sono venuti a contatto - sono "beatamente" (si fa per dire e ci auguriamo che nessuno di loro stia avendo una forma grave della malattia) a casa in stato di infortunio sul lavoro. Ma è corretto? Questa, infatti, era la normale prassi indicata un anno fa dall'INAIL, quando un vaccino ancora non c'era. Oggi che c'è, e che i 15 hanno esplicitamente rifiutato, lo scenario può cambiare: semplice malattia? O, ben più seriamente, la cosa giustificherebbe il ritenerli non più idonei allo svolgimento della professione?

Sono domande che pone proprio lo stesso Direttore Generale del Policlino genovese, Salvatore Giuffrida: in un caso analogo che coinvolgeva 7 infermieri in Germania, per questi è arrivato il licenziamento in tronco. In Italia le norme sono differenti ma, forse, in difetto: «Introdurrei un criterio più morbido di quello tedesco, magari», spiega Giuffrida citando un esempio di tirocinanti che, per il medesimo genere di rifiuto, erano stati sospesi dal tirocinio, «ma occorre indurre il personale, soprattutto professionista, ad utilizzare tutti gli strumenti di prevenzione di cui il vaccino è quello principe». Del resto, appare assurdo, nota il Direttore, che mentre il resto della popolazione invoca a gran voce il vaccino che tarda ad arrivare, proprio alcuni professionisti sanitari vi si sottraggano.

Al San Martino (così come tutto sommato in Liguria) i numeri non sono comunque allarmanti come è capitato in alcune altre parti d'Italia: del personale medico del San Martino il 93% è stato vaccinato, e in buona parte chi non lo è stato vi ha rinunciato in quanto sconsigliato a causa di patologie pregresse che possono costituire fattore di rischio. Meno bulgara, ma comunque chiaramente orientata, la proporzione anche nel reparto infermieristico e tecnico, dove la percentuale più bassa scende all'81%. Numero che comunque sorprende Giuffrida, dato che giustamente, nota, si tratta anche in questo caso di professionisti sanitari, e per di più con conseguenze ancor più a rischio, in quanto «sono una categoria ancor più esposta al contatto prolungato coi pazienti».

Ed, aggiungeremmo noi, una differenza che contribuisce a perpetuare anche una certa percezione e stereotipo - che ormai dovrebbero essere sorpassati, ma casi come questo tornano ad intorbidire - che vedono l'infermiere come un professionista sanitario "a metà", meno "serio", retaggio dell'epoca, non tanto lontana invero, in cui non era ancora un mestiere che prevedesse il percorso di laurea. Per di più, vi è anche una responsabilità etica, forse: al comune cittadino si può anche perdonare un timore od uno scetticismo irrazionale basato sulla poca - o mala - informazione. Ma quando è addirittura il professionista sanitario a dare il "cattivo esempio", beh, le cose si complicano ulteriormente: per tutti e proprio a livello di responsabilità sociale.


 

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