Celebrazione eucaristica per il Peregrinatio della reliquia del beato Rosario Livatino
Tenuta ieri, sabato 12 ottobre, a Rapallo
Nel pomeriggio di sabato 12 ottobre il Vescovo diocesano, mons. Giampio Devasini, a Rapallo, nella Basilica dei Santi Gervasio e Protasio, ha pronunciato l'omelia in occasione della Celebrazione eucaristica nell’ambito della Peregrinatio della reliquia del beato Rosario Livatino.
L'omelia
«Un tale», senza nome, riceve lo sguardo d’amore di Gesù che gli chiede di vendere tutto quello che ha, di donare il ricavato ai poveri e di seguirlo. Ma questo «tale» è assai ricco, si spaventa e si allontana rattristato. Sarà, per tutta la vita, onesto e triste. Osserverà tutti i comandamenti e non avrà la gioia perché ha scelto di avere e non di essere; ha posto il suo tesoro tra i molti beni e non tra le persone.
Un tale, di nome Rosario Livatino, riceve lo sguardo d’amore di Gesù e permette a questo sguardo di dare forma a tutta la sua vita e così diventerà discepolo dell’unico Maestro e così metterà la sua esistenza a servizio della carità e della giustizia e così avrà in cambio una vita moltiplicata e il suo sangue, per usare un’espressione di Tertulliano, diventerà «seme di nuovi cristiani».
Della vicenda esistenziale di Rosario Livatino vorrei brevemente sottolineare tre aspetti.
1. Il martirio subito da Rosario Livatino ha il proprio retroterra nel suo vissuto di fede: durante la vita operò sostenuto dal costante riferimento a Dio e da un’autentica fiducia nella sua presenza. Ritroviamo questa concezione pratica della fede in una frase del suo diario diventata famosa: «quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Lo stesso possiamo dire per il motto “sub tutela Dei” e cioè “sotto la custodia di Dio”, abbreviato nell’acronimo S.T.D. con cui apre i suoi scritti e che si legge pure nella sua tesi di laurea. Ogni mattina, poi, prima di entrare in tribunale, va a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe e ogni domenica partecipa all’Eucaristia. Riceve la cresima all’età di 35 anni dopo aver seguito il catechismo insieme ai ragazzi delle medie. Offre il suo contributo nei corsi di preparazione al matrimonio ed interviene ad incontri organizzati da associazioni cattoliche. Tutto concentrato sul suo lavoro, se lo porta anche a casa per studiare le cause su quella sua scrivania dove spiccano un crocifisso e un Vangelo in molti punti evidenziato e annotato a margine. Questa «“misura alta” della vita cristiana ordinaria», come la chiamò Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, non è soltanto il contesto nel quale è da collocarsi il suo martirio, ma è pure la motivazione dei suoi assassini.
2. Dalle deposizioni emerge che nell’uccisione di Rosario Livatino fu decisivo il fatto che, agli occhi dei mafiosi delle varie correnti locali, la sua inavvicinabilità e incorruttibilità era conseguenza della sua fede pura ed intransigente. Sì, l’intimo e conseguente rapporto tra fede e vita appare in Rosario Livatino in forma davvero esemplare: viveva da cristiano non solo quando varcava le porte della chiesa ma anche quando varcava quelle del tribunale. Una testimone ha dichiarato: «In Livatino non vi era confine tra professione e il suo essere uomo di fede. Il suo essere cristiano traspariva dal suo essere magistrato». Giustamente papa Francesco nella Lettera enciclica Fratelli tutti afferma che quando la fede è disgiunta dalla vita si cade in un «nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze».
3. La mitezza con cui ha vissuto l’odio di cui era oggetto. Molteplici le espressioni di questa mitezza. Intanto la scelta che nessun altro corresse il suo medesimo rischio di vita. In un suo appunto si legge: «Non voglio lasciare vedove e orfani». È consapevole di essere in pericolo di vita, subisce esplicite minacce di morte che lo addolorano, ma prosegue irreprensibile nella scelta fondamentale di rimanere “sotto la custodia di Dio”. Ci sono, poi, le ultime parole uscite dalla sua bocca prima del colpo di grazia esploso in pieno volto: «Picciò, che vi ho fatto?». Davanti ai suoi uccisori, Rosario Livatino ha una parola di mitezza! Questa espressione riporta al lamento di Dio che leggiamo nel libro del profeta Michea: «Popolo mio, che male ti ho fatto?» (6,3). La liturgia del Venerdì santo pone tradizionalmente questo lamento sulle labbra del Crocifisso, su cui non è un rimprovero e neppure una sentenza di condanna ma un dolente, accorato invito a riflettere sulle proprie azioni, a ripensare la propria vita, a convertirsi.
Cari fratelli e sorelle, la vera fede non è pensare a salvarsi l’anima e...il resto della storia non mi importa. «Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo» (Papa Francesco, Evangelii gaudium). Così è stato per Rosario Livatino. Così sia per ciascuno di noi. Amen.