LA TESTIMONIANZA

Sopravvissuto alla violenza nazista, Sami Modiano parla con gli studenti del Natta Deambrosis

Gli studenti delle classi 5A e 4A dell’istituto di Sestri Levante hanno avuto il privilegio di dialogare con lui a Ostia, località del comune di Roma, dove abita

Sopravvissuto alla violenza nazista, Sami Modiano parla con gli studenti del Natta Deambrosis
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Sami Modiano, ebreo di Rodi, all’epoca colonia italiana, è sopravvissuto alla violenza nazista. A Birkenau, a soli 13 anni, perse tutti gli affetti. Da alcuni anni, spende ogni energia per far conoscere ai ragazzi nelle scuole la sua esperienza. Gli studenti delle classi 5A e 4A dell’istituto “Natta Deambrosis” di Sestri Levante hanno avuto il privilegio di dialogare con lui a Ostia, località del comune di Roma, dove abita.

Sami, 92 anni, ha condiviso l’incontro con la moglie Selma, testimonianza di una vita d’amore che dura da 65 anni. Sami ha raccontato quanto gli è accaduto ma ha voluto anche rivolgersi a “tu per tu” con gli studenti sestresi per conoscere le loro storie, le loro passioni, le loro scelte. Gli studenti sono stati accompagnati in questa iniziativa legata al percorso di educazione civica, realizzata con l’organizzazione del “Progetto Credere” della Diocesi di Chiavari, dai docenti Alberto Gastaldi, Valeria Gritti, Monica Cantarella, Annalisa Dentone, Annamaria Milanta.

La sua testimonianza

Ecco alcuni "passaggi" dell'incontro.

"Quando sono stato deportato, avevo appena 13 anni e mezzo. I miei occhi hanno visto cose orrende …Siamo stati presi a Rodi il 18 luglio 1944, arrivati nella rampa della morte il 16 agosto 1944: il viaggio è durato quasi un mese, in condizioni igieniche disumane che non si potrà mai e poi mai immaginare! Dunque, già il viaggio era stato una tortura enorme. Neanche un animale viaggia come abbiamo viaggiato noi. Poi, arrivati alla rampa della morte c’è stata la selezione da parte di un ufficiale tedesco: ha selezionato chi sarebbe dovuto andare a morire e chi – provvisoriamente – sarebbe dovuto rimanere in vita… un semplice sguardo, un gesto di un dito: ignoravamo assolutamente che cosa significassero quei gesti, in quel momento! Seguivamo questi gesti senza capire …"

Lei fu separato dalle donne, e quindi da sua sorella?

"Sì, da mia sorella Lucia. E grazie a Dio, sono stato insieme a mio papà, mio papà Giacobbe. In quei primi giorni, io ho avuto la fortuna di avere vicino papà. Per quanto riguarda mia sorella – anche lei era stata scelta tra coloro che avrebbero dovuto lavorare provvisoriamente nei lavori forzati. Ho avuto un contatto con lei per qualche giorno, a distanza, da lontano. Ci vedevamo a distanza dal lager A nel quale eravamo noi uomini al lager B, nel quale erano le donne. Ma a distanza, con gesti, ma questo ci confortava".

Avevate la speranza che sarebbe finita, prima o poi?

"Avevamo la speranza… Poi, ad un certo momento, quando stai in quell’inferno, ti rendi conto che da Birkenau non c’era nessun’altra via di uscita che la morte. E di fatto, molti si rendevano conto di questo e decidevano di farla finita: si buttavano contro i fili spinati nei quali passava l’alta tensione, e morivano fulminati …".

Suo padre non resse alla notizia della morte di sua sorella …

"… No, non ha retto, poverino. Mia sorella Lucia era la cocca di papà. Aveva tre anni più di me. Era una ragazza bellissima. Sai, io ho perso mamma quando avevo 11 anni e lei si era presa l’impegno di farmi da mamma e da sorella. Quando l’ho persa, ho perso la persona più cara che avessi al mondo, purtroppo. E subito dopo, mio papà, anche lui si è lasciato andare, non ha voluto continuare e ha deciso di farla finita. E l’ha fatto in un altro modo: quello di andare a presentarsi in ambulatorio, dicendo che si sentiva male. E purtroppo, noi sapevamo molto bene che quando uno si presentava all’ambulatorio decideva di consegnarsi alle camere a gas o ai forni crematori. Mio padre aveva scelto questa strada, nonostante avesse tentato di consolarmi dicendo: “Non mi uccideranno, vedrai: mi cureranno”. Ma non era vero, e lui lo sapeva: lo sapeva bene, lo sapeva bene.

Di fronte alla notizia dell’arrivo dei russi, i nazisti vi condussero nella “marcia della morte”, da Birkenau ad Auschwitz. Lei era allo stremo, condannato a finire i suoi giorni in quell’inferno. Ma avvenne qualcosa di imprevisto…

"Non sarebbe dovuto rimanere in vita nessuno, nessuno a testimoniare ai russi di quello che avevamo visto e di quello che avevamo sopportato. Ma c’è stato il miracolo: mi accasciai a terra perché non ce la facevo più a tenermi in piedi – ero diventato uno scheletro, un morto vivente, ero più dall’altra parte che da questa, quando avvenne il miracolo. Io ce l’ho fatta. Non so spiegarmi come. Due persone, due prigionieri, hanno fatto una cosa che non ha una spiegazione: si sono inchinati. Io non mi aspettavo nessun aiuto – ma non per cattiveria e nemmeno per egoismo. In quei casi ognuno di noi, cercava di salvare la propria pelle; nessuno aveva la possibilità di aiutare il prossimo. Io non mi aspettavo nessun aiuto, eppure l’hanno fatto ugualmente. Mi hanno tirato su, mi hanno trascinato per quegli ultimi metri che mi mancavano per arrivare ad Auschwitz e poi si sono accorti che non avrebbero più potuto continuare a trascinarmi, e mi hanno abbandonato là, in un angolo, dove c’erano altri cadaveri. E là sono rimasto fino a quando sono entrati i russi. Non conoscevo quei due uomini, non li avevo mai visti. Non ho avuto neanche il tempo di ringraziarli, questi due prigionieri che io ho chiamato angeli custodi! I tedeschi credevano che io fossi un cadavere come tutti gli altri, là, per terra, perché avevo perso i sensi: hanno visto che nessuno si muoveva e hanno lasciato Birkenau proseguendo la 'marcia della morte'".

Lei, poi, si rifugiò in una casa dove trovò altri superstiti …

"…Sì, mi sono rifugiato in uno dei fabbricati di Auschwitz per non rimanere tutta la notte, con una temperatura intorno ai venti gradi sottozero. Là sono stato preso in cura da una dottoressa russa".

Nel campo di concentramento, sembra impossibile, ha trovato un amico…

"Un'amicizia vera, profonda, fraterna tra due ragazzi. Avevamo bisogno di sostenerci. Un legame con Pietro Terracina che è durato tutta la vita".

 Si possono curare le ferite aperte?

"Io ho una piaga che non si chiuderà mai più. Ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Continuo ancora a soffrire. Specialmente quando incontro i ragazzi e devo spiegare tutto questo: per me è un dolore enorme, ma lo faccio. Lo faccio perché ho capito che ho la missione di trasmettere a questi ragazzi, che fanno parte di questa nuova generazione la memoria di ciò che ho vissuto, perché non si ripeta. E questo mi dona coraggio".

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