La lettera dei familiari del maestro di sci che ha perso la vita a Santo Stefano

Il reato di omicidio colposo è caduto in prescrizione, non ci sarà nessun appello per accertare cause e colpe, la famiglia: «Non cerchiamo vendetta ma responsabilità»

La lettera dei familiari del maestro di sci che ha perso la vita a Santo Stefano
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Due numeri addietro, sulle colonne de Il Nuovo Levante, abbiamo riportato la notizia che riguardava il processo per la morte di Marco Corvisiero, avvenuta nel 2011 a Santo Stefano d'Aveto. Nessun appello perché il caso, è caduto in prescrizione. Gli imputati, assolti in primo grado, erano Matteo Buffa, Marco Bedini e Fabrizio Masella. I familiari hanno scelto di mandarci una lettera, anche per dare sfogo al dolore.

La lettera dei familiari

«Chi oggi va a sciare a Santo Stefano e trova una località sciistica organizzata con accoglienti rifugi, cani antivalanga ed esercitazioni annuali di soccorsi in montagna, può sentirsi infastidito nel sentir ancora parlare di tristi avvenimenti che risalgono a otto anni fa. Ma allora la situazione era molto diversa. Siamo i primi a desiderare che su questa vicenda dolorosissima per noi e vergognosa soprattutto per i tempi infiniti della giustizia, cada il silenzio. Riteniamo però doveroso sottolineare alcuni concetti, anche in risposta all’ultimo articolo apparso su un non altrettanto imparziale quotidiano locale. Non abbiamo mai desiderato vendette o auspicato la prigione per nessuno, abbiamo semplicemente ma inutilmente chiesto giustizia perché fosse appurata la verità. Perché anche i sassi e i faggi della Val d’Aveto sanno che quel giorno non ha funzionato nulla, e non solo “per fatalità”…

Invece il tam-tam mediatico dell’epoca ha cominciato a disegnare scenari apocalittici in un comprensorio grande come un fazzoletto, influenzando un giudice che, per sua ammissione, ha visto la neve solo in cartolina… Come se i soccorsi in montagna si dovessero fare solo sotto un sole splendente.

Sono state fatte insinuazioni fantasiose su quella pista dalla quale da oltre quarant’anni siamo scesi, e tutt’ora scendiamo, tutti: è stata descritta al giudice come la più difficile e inaccessibile del Pianeta. Gli imputati sono stati assolti in primo grado, ma se non fosse sopraggiunta la prescrizione si sarebbe arrivati all’appello, che in realtà si è risolto in tre minuti perché noi, estenuati e avviliti da anni di sterili dibattimenti e inconcepibili rinvii, abbiamo accettato un risarcimento firmando, come contropartita, un documento con il quale abbiamo rinunciato a costituirci “parte civile” e di fatto a proseguire nella nostra disperata richiesta di giustizia. Ci siamo rassegnati all’idea che continuare a combattere contro l’arroganza del “Dinosauro” sarebbe stato solo un suicidio.

I giudici preposti al giudizio di appello (gli unici che abbiano dimostrato un minimo di umanità) hanno preso atto della situazione e il Procuratore Generale ha rinunciato all’appello avallando di fatto il giudizio di primo grado.

Sebbene non ci sia prezzo al mondo che possa compensare una perdita così incommensurabile, abbiamo accettato la proposta di risarcimento (quella stessa proposta che avevamo più volte rifiutato nel corso di dibattimento di primo grado quando ancora ci illudevamo che la giustizia funzionasse) perché per noi costituisce comunque un’ammissione di responsabilità, che era semplicemente quello che avremmo voluto fin da subito: se ci fossero state più umiltà e comprensione forse non si sarebbe nemmeno arrivati ad iniziare questo processo.

Adesso le parti coinvolte sostengono di non essere state loro a chiedere di risarcirci, questo fatto ci fa sorridere perché non ci risulta che le assicurazioni siano Onlus di beneficenza e distribuiscano soldi a pioggia immotivatamente. Questo processo, che con una giustizia funzionante sarebbe durato sei mesi, dopo otto anni è riuscito soltanto a proclamare pseudo-vincitori. Con mille ombre e mille dubbi. Mai avevamo, prima di questa straziante vicenda, avuto a che fare con tribunali, udienze, appelli, rinvii, prescrizioni. Ne usciamo con un profondo senso di amarezza e di sfiducia nella giustizia. L’unica “consolazione” (non certo pecuniaria) è il risarcimento ricevuto che testimonia quello che la giustizia non è riuscita a far emergere: una ammissione di responsabilità. Grazie».

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