L'INTERVISTA

«Sul coronavirus meglio essere cauti»

Finita la drammatica emergenza, parla il pneumologo Nicolini a stretto contatto con il covid-19

«Sul coronavirus meglio essere cauti»
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Tra chi ha lavorato ogni giorno a stretto contatto con i pazienti malati di covid c'è anche Antonello Nicolini, 63 anni, responsabile del reparto di Pneumologia Riabilitiva nell'ospedale di Sestri Levante.

L'intervista

Dottore, dopo questi mesi che idea si è fatto del coronavirus? «Che è una malattia molto complessa, questo è sicuro, le cui informazioni cambiano di giorno in giorno perché è comparsa solo da pochi mesi. E che non è solo un virus respiratorio perché può colpire qualunque organo e in maniera più importante rispetto ad altri virus. Progressi sono stati fatti, l'esperienza di tutti è servita, ma c'è ancora molto da conoscere. Di sicuro una cosa l'abbiamo capita: che la diagnosi e il trattamento precoci sono molto importanti se non indispensabili».

Lei ha lavorato nel Reparto Covid, in Subintensiva Respitoria. Quanti ricoverati avevate nel vostro reparto e che terapia avete usato per curarli? «Poco più di 100 persone, con età media abbastanza elevate, ma non sono mancate persone giovani. Noi pneumologi seguivamo le persone con gravi disturbi respiratori: alcuni richiedevano il casco, altri maschere, dipendeva dai pazienti. Ovviamente la priorità era cercare di fare il possibile per evitare l'intubazione. Come dicevo prima, oltre all'importanza di individuare in maniera precoce la malattia, è stato fondamentale l'uso di antifiammatori, terapie cortisoniche e antibiotiche (per evitare complicanze infettive), farmaci anticoagulanti. Ogni terapia era modulata in base agli aspetti clinici, al di là dei casi più gravi che richiedevano ossigeno e ventilazione meccanica».

Quali persone sono più a rischio una volta contratti il virus? «Da quello che abbiamo potuto osservare – e fondamentale è stata la collaborazione e lo scambio di esperienze con i colleghi in tutta Italia, la Lombardia è stata la prima a pubblicare tanti dati -, le persone obese e in sovrappeso sono state quelle più a rischio. Ma anche chi aveva malattie cardiache e neurologiche: insomma, non necessariamente chi aveva già una malattia respiratoria era più a rischio».

Anche a lei chiediamo, che conseguenze porta il coronavirus una volta usciti? «Dirlo ora è azzardato, non mi spingo oltre. Al momento gli studi ipotizzano che un paziente su tre con problemi respiratori possa avere conseguenze in futuro. Per monitorare i pazienti che hanno contratto il virus è stato allestito un ambulatorio dedicato post covid, sarà attivo a breve: tra 6 mesi/1 anno, forse avremo qualche risposta».

Possiamo dire di aver passato il peggio? Quanto è alto, a suo parere, il rischio di una seconda ondata in autunno? I pareri a riguardo sono discordanti. «Senza dubbio non bisogna arrivare impreparati ad una possibile seconda fase. Molti strumenti ce li abbiamo, ma si può sempre migliorare. Le raccolte fondi per comprare materiale o macchinari ben vengano sempre, avere una riserva è importante, sempre. Mi piacerebbe far passare questo concetto: quando arrivano aiuti dall'esterno, nulla va buttato, piuttosto sono da considerare risorse sospese. Preferisco essere pessimista e avere una scorta in caso di necessità, che il contrario. Una cosa che ho imparato nella vita è la politica della formica: anche se a volte certi investimenti possono sembrare soldi buttati, é un rischio che dobbiamo correre, per curare le persone è necessario mettere da parte».

Meglio dunque essere cauti? «A mio parere, assolutamente sì. Primo, non smettere di mantenere le distanze; al secondo posto metterei il lavaggio delle mani, in qualsiasi contesto: non smettiamo di farlo; al terzo, non interrompiamo di indossare la mascherina, è sempre efficace, noi medici l'abbiamo sempre utilizzata. Altri virus ci insegnano che si può sempre peggiorare, quindi non molliamo la presa».

Secondo il suo punto di vista, quando arriverà il vaccino? Dovranno farlo tutti o alcune categorie sono esentate? «Adesso siamo nella fase della sperimentazione, ma nessuno può ancora dire quanto sarà efficace, occorre aspettare. Lo dico lo dico sempre ai miei pazienti, le cose fatte di corsa non vengono bene, la natura ha i suoi tempi e agisce lentamente, per cui un po' di attesa sarà necessaria. Tenga conto che per un farmaco, prima che sia messo in commercio, bisogna attendere almeno 10 anni: in questo caso abbiamo una nuova malattia molto complessa che ha solo sei mesi e anzi probabilmente di più, perché com'è noto sembra si sia sviluppata prima. Non dico tutti questi anni, ma aspettare sarà fondamentale».

Qual è il ricordo più forte che si porta a casa di questi mesi? «L'equipe con cui ha lavorato: si è sempre messa a disposizione degli altri. Dico questo per ricordare ai pazienti che “dietro le quinte” sono stati curati da persone che non hanno mai guardato l'orologio o rinunciato al loro dovere per paura di ammalarsi. Non ho mai sentito nessuno che si sia lamentato o abbia detto, “Ma chi me l'ha fatto fare”: questo è un segnale importante. All'inizio nessuno di noi ne sapeva molto, quello che conoscevamo era che si trattava di un virus molto aggressivo. Non è neanche scontato il fatto che persone che non si avevano mai lavorato insieme lo abbiano fatto in sintonia. Questo vorrei ricordare».

E il messaggio che vorrebbe lasciare ai cittadini? «Di non considerare finita l'emergenza, semmai di aver superato un banco di prova. Poi si vedrà. Noi italiani abbiamo il pregio e il difetto di saper rispondere uniti alle avversità: ma sarebbe meglio prevenirle prima, non crede?»
Claudia Sanguineti

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