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Moneglia, Cofferati e Viarengo presentano “Il processo Spiotta”

Nella serata sarà proiettato il video di Cristina Pitruzzella “1945 Memoria di un processo”

Moneglia, Cofferati e Viarengo presentano “Il processo Spiotta”
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Giovedì 21 luglio alle ore 21 nella Sala Consiliare del Palazzo Comunale di Moneglia, Sergio Cofferati dialogherà con Giorgio “Getto” Viarengo, autore del libro Il processo Spiotta. La Corte d’Assise straordinaria a Chiavari, sul tema: come l'Italia Liberata ha fatto i conti con i delitti della Repubblica Sociale.

Nella serata sarà proiettato il video di Cristina Pitruzzella 1945 Memoria di un processo.

L’iniziativa è organizzata dalla Sezione Anpi di Moneglia con il patrocinio del Comune.

L’ingresso per il pubblico è libero sino a esaurimento posti.

Il processo a carico di Vito Spiotta, vicecomandante della Brigata nera genovese Silvio Parodi, e di altri fascisti della sua “Banda” responsabili di feroci rastrellamenti, uccisioni e deportazioni fu celebrato presso la Corte d’Assise Straordinaria di Chiavari: durò tre torridi giorni, dal 16 al 18 agosto 1945, ebbe grande partecipazione di cittadini assiepati nell’aula del tribunale riaperto dopo più di vent’anni, ma anche nella piazza sottostante dove seguivano lo svolgimento tramite altoparlanti, si concluse con la condanna a morte dello stesso Spiotta e dei suoi più stretti collaboratori Enrico Podestà e Giuseppe Righi, mentre complici “minori” se la cavarono con una breve reclusione. I tre condannati alla pena capitale furono fucilati da un drappello della Polizia composta da ex partigiani del Levante ligure, poco prima della fredda alba dell’11 gennaio 1946, al poligono di Pedegoli, sopra Quezzi, a Genova. Si chiudeva così per Chiavari il tristissimo capitolo iniziato oltre due anni prima quando, nel settembre 1943, fu costituito, con Spiotta come capo incontrastato, il locale fascio repubblicano.

Questo fu uno dei pochi casi in cui, in Italia, i responsabili delle atrocità commesse nel tragico periodo di Salò furono assicurati alla giustizia e pagarono per i loro crimini.

Vito Spiotta, nativo di Gioia Tauro (Reggio Calabria) trasferitosi a Chiavari verso la fine degli anni Trenta, era un imprenditore di scarse attitudini, titolare di una piccola fabbrica di bachelite che stentava ad andare avanti. Intravvista nel partito fascista repubblicano e nella drammaticità del momento storico l’occasione per la conquista di un potere personale da esercitare con violenza e crudeltà, subito dopo l’armistizio aveva abbandonato completamente la propria attività e organizzato il Partito fascista repubblicano di Chiavari che, nel dicembre 1943, istituisce la centuria Bir el Gobi e successivamente la squadra d’azione Ettore Muti, formata da numerosi fascisti del chiavarese. Ispettore generale del Pfr, nell’estate 1944 divenne vicecomandante della 31a Brigata nera Silvio Parodi e comandante del 3° battaglione. Fondò e diresse il giornale Fiamma repubblicana che si distinse per una virulenta propaganda antipartigiana e antisemita, attaccando ferocemente anche numerosi parroci della zona, accusati di collusione col movimento resistenziale. Solerte collaborazionista, Spiotta partecipò attivamente ai rastrellamenti nella zona, in appoggio ai reparti nazisti, alla Guardia nazionale repubblicana e alla Monterosa, e organizzò una rete di spionaggio e un apparato repressivo che si distinse per gli atti efferati nei confronti degli arrestati, sistematicamente sottoposti a violenze e torture.

Il libro di Giorgio “Getto” Viarengo, recentemente pubblicato da Internos, frutto di un prezioso lavoro di ricerca storica, consente di “ascoltare” direttamente le arringhe del pubblico ministero e dei difensori, le drammatiche parole dei testimoni e delle vittime che rievocano le atrocità commesse dagli imputati, i tentativi disperati degli accusati di scagionarsi.

La “diretta” accompagna poi il lettore dentro al carcere nel quale i condannati trascorrono l’ultima notte prima dell’esecuzione. Sulla base di testimonianze e di scritti degli stessi reclusi, riporta i pensieri e le ultime angosciate parole. Fino all’atto finale, nel triste luogo dove sarà eseguita la pena capitale.
Ricostruire, documentare e storicizzare tutti questi avvenimenti non è stato facile: Viarengo ha analizzato riga dopo riga la sentenza depositata all’Archivio di Stato Genovese, ha cercato le tracce degli atti processuali andati “smarriti”, ha consultato tutti gli articoli reperibili dei giornali che avevano seguito il processo, compreso il filmato del cinegiornale girato in quei giorni.

Il libro è, dunque, un’importante occasione per rivivere uno dei rari momenti dell’immediato dopoguerra nel quale gli italiani fecero i conti con il loro recente passato.

In Italia furono veramente in pochi a pagare per i crimini commessi dal regime fascista prima e durante i seicento giorni della Repubblica di Salò, come dimostrano moltissime altre pagine di storia, anche nel Tigullio e nella provincia di Genova.
Le Corti di Assise Straordinarie furono istituite il 22 aprile 1945 con il compito di giudicare i “collaborazionisti” e lo scopo prioritario di evitare atti di giustizia sommaria.

In realtà tali Corti furono molto garantiste per gli imputati: nei circa sei mesi di attività hanno esaminato più o meno 10mila provvedimenti, comminando 500-550 condanne a morte, delle quali soltanto 91 furono eseguite.

Sostanzialmente, non hanno raggiunto lo scopo della punizione esemplare dei delitti fascisti e della distensione degli animi e furono soppresse il 5 ottobre 1945: alcune inopportune assoluzioni o condanne esageratamente miti o eccessivamente gravi, hanno lasciato gli animi insoddisfatti e molto spesso, negli elementi fascisti più accesi, desideri di rivincite.

Pochi mesi dopo, il 22 giugno 1946, al fine di ottenere un «rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale» arrivò la "amnistia Togliatti" che comprendeva i reati comuni e politici, inclusi quelli di collaborazionismo con il nemico, tutti i reati commessi al Sud dopo l'8 settembre 1943 e quelli compiuti al Centro e al Nord dopo l'inizio dell'occupazione militare alleata.

L’ostacolo più grande all’effettiva epurazione degli elementi fascisti nelle élite sociali e negli organismi dello Stato fu che, dopo vent’anni di dittatura, quasi nessuno all’interno degli apparati aveva effettivamente la legittimità e nemmeno l’interesse a scavare a fondo per indagare su crimini, connivenze e appoggi che avevano coinvolto più o meno tutti. E ancor più pesò una drammatica evidenza pratica: l’intero sistema statale, amministrativo e produttivo, aveva tra i propri addetti pochissimi che potessero vantare esperienza sufficiente a far funzionare la macchina e al contempo credenziali solide di antifascismo.

È in sostanza quello che lo storico Claudio Pavone ha definito “il problema della continuità”: non è possibile intervenire sulle strutture dello Stato separando l’elemento fascista da quello non fascista senza interrompere lo svolgimento dell’attività amministrativa.

Non è ancora stato chiarito se vi furono pressioni per impedire l'azione giudiziaria contro i responsabili delle atrocità nazifasciste per motivi di opportunità politica o addirittura per una superiore ragione di Stato.
Nel 1994, in uno sgabuzzino di un palazzo romano della Procura generale del Tribunale supremo militare fu ritrovato il cosiddetto “Armadio della vergogna”, nel quale erano contenuti 695 dossier e un Registro Generale riportante 2.274 notizie di reato relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano tra il 1943 e il 1945 dai nazifascisti. Ci fu grande attenzione da parte della stampa e un forte interessamento dell'opinione pubblica. Il Consiglio della magistratura militare con una relazione finale nel 1999 e poi la II Commissione Giustizia della Camera dei deputati nel 2001 ravvisarono anomalie nella gestione dei fascicoli.

Nel 2003 fu istituita la Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, che raccolse in tre anni circa 80mila documenti, concentrandosi su tre ipotesi: si era voluto evitare il coinvolgimento di responsabili tedeschi per mantenere buoni rapporti con la Repubblica Federale di Germania, importante argine all'avanzata culturale e politica sovietica; era stato necessario “dilazionare” per tacitare le accuse di violenze commesse dagli italiani in Albania, Jugoslavia, Grecia ed Etiopia; non conveniva indagare sull’attività svolta da ex nazisti e fascisti all'interno dei servizi segreti occidentali.

Il lavoro della Commissione non portò a una relazione condivisa: la maggioranza ha concluso che mancava il documento probante l'ingerenza politica e/o dei servizi segreti sulla magistratura militare; la minoranza ha sottolineato di essersi posta in linea di continuità rispetto alle indagini precedenti del Consiglio della magistratura militare e della Commissione Giustizia della Camera, cercando di precisare in che modo la “ragion di stato” e il contesto internazionale abbiano influenzato l'azione penale contro i criminali nazifascisti.

In Germania e Francia è andata diversamente. La differenza tra la realtà nostra e quella tedesca è che loro hanno avuto Norimberga: la distruzione materiale e morale della nazione operata dal nazismo imponeva alla Germania di fare i conti con quel passato, soltanto da lì si poteva ripartire ricominciando da zero.
L’Italia tra il 1943 e il 1945 è stata co-belligerante con gli Alleati, ha avuto la Resistenza e, per questo, noi ci siamo sentiti già “riscattati” dalle colpe del ventennio. Norimberga fu un atto di giustizia obbligato, al quale noi abbiamo pensato di non essere tenuti.

Norimberga ha, però, segnato la fine dell’alleanza contro il nazifascismo. Immediatamente dopo è esplosa la contrapposizione tra Est e Ovest: gli ex nazisti, scienziati e tecnici che interessavano ai due blocchi sono stati salvati o dai russi o dagli americani che li hanno portati a lavorare per loro.
In Francia l’epurazione è stata molto invasiva tra l’agosto del 1944, quando è stata liberata, e la fine della guerra nel 1945; dopo, anche qui si è fermata, perché sono entrati in gioco i due blocchi contrapposti.

Con la tensione montante a causa della Guerra Fredda e la fine dei governi formati da tutte le forze dei Comitati di liberazione, la defascistizzazione è diventata per tutti un tema decisamente secondario nell’agenda politica e anche in quella pubblica.

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